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giovedì 16 ottobre 2014

La chiesa bizantina di San Giovanni di Assemini




La piccola chiesa di San Giovanni Battista sorge in uno slargo di rispetto nel cuore del centro storico di Assemini, importante centro dell’area metropolitana di Cagliari, a circa quindici chilometri dal capoluogo. 

A brevissima distanza si trova la parrocchiale di San Pietro, di fabbrica più tarda, che ha restituito elementi epigrafici e architettonici databili a età bizantina, di cui però sono incerte la provenienza e la collocazione originarie.
Chiesa di San Pietro


A dispetto delle ridotte dimensioni, l’edificio costituisce una delle massime testimonianze di architettura bizantina dell’intera Sardegna. Nonostante sia quasi sconosciuta al grande pubblico, la chiesa è tuttavia molto nota alla storiografia artistica locale che, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si è spesso soffermata sulle peculiarità architettoniche e decorative della piccola chiesa con un cospicuo numero di contributi scientifici che hanno tentato di ricostruire le sue vicende costruttive e di darle una corretta collocazione all’interno del più ampio quadro dell’architettura bizantina nelle province periferiche dell’Impero d’Oriente.


I risultati a cui i diversi studiosi sono giunti nel corso del tempo sono, però, molto spesso, discordanti e contraddittori. Uno dei limiti di alcuni di tali studi è dato dal fatto che, per la datazione dell’edificio ci si è spesso affidati alle caratteristiche stilistiche del ricco corredo di marmi decorativi ed epigrafici custoditi all’interno; essi, databili con relativa sicurezza ad età mediobizantina, tra il X e i primi dell’XI secolo, si inseriscono nel quadro di un’ampia serie di marmi dello stesso tipo presenti in altre chiese sarde e in diverse raccolte museali della regione. 


Questi elementi di arredo, di alta qualità, sono stati messi in relazione con una delle fasi di vita del piccolo edificio, e a volte intesi come parte integrante del corredo liturgico e decorativo originario della prima fase. In realtà, lungi dal documentare strettamente una fase architettonica ben precisa, essi testimoniano tutt’al più – se appartenenti fin dall’origine al San Giovanni – una fase di vita della chiesetta, senza tuttavia vincolare a datazioni così basse la struttura architettonica stessa, che può, senza problemi, essere fatta risalire a una fase molto più alta del X secolo.


La struttura architettonica stessa non è leggibile con facilità, e crea diversi problemi di interpretazione  a chi si accinge a esaminarla con criterio scientifico al fine di ricostruirne l’icnografia originaria e i dettagli planimetrici e architettonici. 
























Già a un esame superficiale dall’esterno, la chiesa mostra la sua peculiarità icnografica, che ne fa un unicum nel quadro delle architetture superstiti della Sardegna bizantina: la chiesa mostra, infatti, una pianta a croce greca inscritta in un quadrato, con pseudo cupola all’incrocio dei bracci. L’icnografia a croce inscritta è, allo stato attuale delle conoscenze, l’unica presente sul territorio sardo, e le peculiarità della struttura architettonica dell’edificio, ne fanno un unicum anche nel più ampio contesto dell’Italia meridionale. Infatti la totalità delle chiese bizantine sarde che mostrano uno sviluppo planimetrico cruciforme, presenta un impianto a croce libera con cupola centrale. 

Le quattro camere angolari, anche ad una ricognizione frettolosa, mostrano inequivocabili gli indizi di una loro ricostruzione (o costruzione ex novo a seconda delle interpretazioni fornite) in tempi successivi all’impianto.


Alcune testimonianze orali raccolte ai primi del Novecento – che non hanno tuttavia valore scientifico – raccontano della fabbrica dei quattro ambienti d’angolo in anni di poco precedenti la metà del XIX secolo. Il principale problema posto dal piccolo edificio è, infatti, proprio quello della fase d’impianto: la chiesa può aver avuto fin dall’origine la pianta così come si presenta attualmente, oppure può derivare da una ricostruzione e ampliamento successivi; non è certamente da scartare anche l’ipotesi che l’ipotetico ampliamento potrebbe essere avvenuto nel corso della stessa età bizantina, in tempi e modi difficili da precisare. 




Le murature originarie sono costituite, per la maggior parte, da conci ben squadrati di calcare locale, di media o grande pezzatura, messi in opera con relativa cura e perizia. I quattro bracci della croce sono coperti con robuste volte a botte, che si pronunciano all’esterno a formare un arco leggermente aggettante nelle testate; 


quest’ultimo elemento, tipicamente locale, è comune a diverse altre architetture bizantine sarde, quali, per esemplificare, la piccola chiesa di San Teodoro a San Vero Congius (Simaxis) o le strutture di ampliamento del San Giovanni di Sinis (Cabras), di datazione molto incerta ma certamente da ricondurre all’epoca bizantina, come dimostra il sistema metrico utilizzato per la fabbrica. Anche per quanto riguarda il San Giovanni di Assemini, il sistema metrico utilizzato per il proporzionamento dell’edificio è il piede bizantino, cosa che serve a fugare ogni dubbio riguardo la sua cronologia relativa. 

Le camere d’angolo, coperte con tetto ligneo a doppio spiovente disposto in senso trasversale all’asse dell’edificio, mostrano murature più eterogenee, formate da grossi blocci squadrati disposti con scarsa regolarità e da pietrame più minuto affogato nella malta. 


 



















Sul lato orientale, che ospita l’altare, si apre una piccola abside dal profilo semicircolare, che emerge dal muro esterno di testata con proporzioni basse e tozze. 





Il prospetto principale, rivolto a occidente, è caratterizzato da estrema semplicità e mostra i segni di numerosi rimaneggiamenti: un portale centinato privo di architrave è sovrastato da una finestra quadrangolare di datazione evidentemente seriore, riquadrata all’interno dell’arco che segna l’imposta della volta a botte che copre il braccio ovest, che in questo caso è a filo con il muro di prospetto e non aggetta; il profilo orizzontale del prospetto è chiuso in alto da un campanile a vela a unica luce, non originale ma di difficile collocazione cronologica. 




Lo spazio interno, molto angusto, mostra immediatamente la peculiare articolazione planimetrica dell’edificio; lungo i quattro bracci, sopra le ampie arcate che danno accesso ai vani angolari, corre una cornice continua lungo tutto il perimetro con l’esclusione delle testate; 

     
    

una seconda cornice corre più in alto a segnare l’imposta quadrata irregolare della piccola cupola emisferica nel vano di incrocio; essa è per due terzi del suo sviluppo inserita in un tiburio cubico che, all’esterno, la nasconde parzialmente alla vista, nel quale si aprono quattro piccole luci quadrangolari che consentono una fioca illuminazione; gli elementi di raccordo della cupola al quadrato di base non hanno funzione strutturale, ma, date le ridotte dimensioni della cupola stessa, sono semplicemente scolpiti nei quattro conci angolari, in modo da dare l’idea di un raccordo a trombe, come si vede in altri edifici sardi dello stesso tipo (es. Sant’Antioco nel centro omonimo, Sant’Elia di Nuxis). 


Altre finestre quadrangolari, di apertura sicuramente successiva, nelle testate e nelle camere d’angolo, e una piccola luce cruciforme sopra l’arco absidale illuminano l’interno della chiesa. 


La ristrettezza dello spazio interno dei bracci – molto più accentuata rispetto ad altre architetture coeve – costituisce un elemento a favore della tesi della pianta a croce inscritta fin dall’origine, con un ampliamento dunque dello spazio interno tale da consentire una minima abitabilità agli ambienti; da rilevare, inoltre, che le arcate di comunicazione tra i bracci e le camere d’angolo sembrano coerenti con le murature e non mostrano di essere state aperte in rottura. 




 


















Elemento molto interessante, rilevato e messo in evidenza con acume da Mark Johnson nel suo ultimo studio sull’architettura bizantina in Sardegna, è la particolarissima configurazione dei conci di chiave delle arcate in questione, che mostrano una forma cuneiforme molto accentuata, che si ritrova praticamente identica nelle pietre di chiave delle volte a botte dei bracci; tale elemento, unico, sarebbe una prova della contemporaneità nella fabbrica delle volte e degli archi in questione, salvo voler ipotizzare una improbabile più tarda imitazione di questo singolo elemento. 






Impossibile ripercorrere nel dettaglio, in questa sede, la storia degli studi e le diverse proposte interpretative a cui i diversi studiosi sono giunti ognuno per suo conto, così come è difficile ricostruire il contesto storico o urbanistico originario in cui la piccola chiesa venne a trovarsi al momento della sua erezione; né sono chiare o al momento ipotizzabili la committenza o la sua funzione originaria. La chiesa viene nominata per la prima volta nel 1108, relativamente alla sua donazione, da parte del giudice Mariano Torcotorio II de Lacon Gunale alla cattedrale di San Lorenzo a Genova; le altre menzioni sino tutte più tarde. 

Gli studi più recenti di Roberto Coroneo e di Mark Johnson sono giunti, sostanzialmente, alle stesse conclusioni, specialmente per quanto concerne la datazione della piccola chiesa, alzata da entrambi ad un periodo compreso tra la metà del VI e il VII secolo, sia per le caratteristiche architettoniche dell’edificio e per alcuni dettagli decorativi, che la ricondurrebbero allo stesso contesto storico e architettonico che vide l’erezione, in Sardegna, della gran parte delle altre chiese ad impianto cruciforme. 

Interessante la proposta di Mark Johnson di indiretta relazione formale tra questa chiesa e quella del Santissimo Salvatore a Rometta (Messina), che, tolte le dovute differenze, è l’unico esempio italiano che si lega strettamente ad essa. Non sono, invece, calzanti i paralleli con altre chiese a croce greca inscritta di area italica meridionale, quali le chiese di San Pietro a Otranto (Lecce) o quelle calabresi della Cattolica a Stilo (Reggio Calabria) e di San Marco a Rossano (Cosenza), che si legano invece agli sviluppi più tardi del tipo, comuni a quelli di altre aree dell’Impero.


Nicola S.

 

 



Bibliografia essenziale:

 

D. Scano, Storia dell’arte in Sardegna dal XI al XIV secolo, Cagliari-Sassari, 1907; 
F. Giarrizzo, La chiesetta di S. Giovanni di Assemini, Roma, 1920; 
R. Delogu, L’Architettura del Medioevo in Sardegna, Roma, 1953; 
B. Virdis, Rilievi di tre chiese sarde. S. Giovanni in Assemini, S. Antonio Abate e S. Lorenzo di Cagliari, “Palladio” XII, 1962; 
M. Johnson, The Cruciform Churches of Sardegna and the transmission of architectural form. Acts XVIIIth International Congress of Byzantines Studies. Selected papers III. Art History, Architecture, Music (Moscow, 1991), Sheperdstown, 1996; 
R. Coroneo, Scultura mediobizantina in Sardegna, Nuoro, 2000; 
S. Mancosu, “Assemini e la chiesa di San Giovanni”, in R. Martorelli ed., Città, territorio, produzione e commerci nella Sardegna medievale. Studi in onore di Letizia Pani Ermini, Cagliari, 2002; 
R. Coroneo, R. Serra, Sardegna preromanica e romanica, Milano 2004; 
R. Coroneo ed., La chiesa altomedievale di San Salvatore di Iglesias. Architettura e restauro, Cagliari, 2009; 
R. Coroneo, Arte in Sardegna dal IV alla metà dell’XI secolo, Cagliari, 2011; 
M. Johnson, The Byzantine Churches of Sardinia, Wiesbaden, 2013.

giovedì 2 ottobre 2014

IL CASTELLO DI ORGUGLIOSO - SILIUS




Il castello di Orguglioso o di Sassai si trova a circa 50 Km dalla città di Cagliari nella regione storica del Gerrei nel territorio del comune di Silius.


Il sito è facilmente raggiungibile dal paese per mezzo della strada comunale che da Silius porta a Ballao, dopo  circa quattro chilometri si arriva ad uno spiazzo dove si lascia l'auto e si percorre un sentiero di trecento metri che culmina sulla cima della collina dove è ubicato il castello.


Il castello sorge sulla cima di una collina a circa 450 m di altitudine da cui domina il paesaggio e le montagne circostanti. 


Nell’area circostante l’edificio sorgeva il villaggio di Sassai, di cui non resta traccia, dal quale lo stesso castello trae una delle sue denominazioni. Quasi totalmente celati alla vista fino al 1995, gli imponenti ruderi della fortezza furono riportati alla luce grazie ad alcune campagne di scavo succedutesi a partire da tale data.


Ricostruire la sua storia non è sempre agevole data la scarsità di fonti documentarie. Probabilmente di origine giudicale, il castello era certamente in mano pisana almeno dal 1265, come si evince da un trattato concluso nel 1286 fra il Giudice Mariano II di Arborea e i Pisani.

Dopo il 1324 il castello passò certamente in mano aragonese in seguito alla conquista dell’isola. Nel 1353, nel corso del conflitto tra Aragona ed Arborea, il castello fu uno dei teatri della guerra, in seguito alla quale fu abbandonato e iniziò la sua decadenza. 


Giungendo dal sentiero si gira intorno all’edificio per poi raggiungere l’attuale ingresso sopraelevato posto accanto al mastio.

La struttura presenta una pianta pseudo-pentagonale abbastanza irregolare che segue il crinale della collina; le murature, in alcuni punti superstiti per diversi metri di altezza, sono costruite con piccoli conci rozzamente squadrati.



Il lato Ovest mostra al centro un possente rinforzo semicircolare; 


sul lato opposto si erge il mastio di pianta quadrangolare, alto circa 6 m, che costituisce la parte in elevato meglio conservata di tutto il complesso.




Superato il mastio si accede ad una piccola corte sulla quale si distribuiscono i vari ambienti abitativi e di servizio. 


Sulla sinistra rispetto all’ingresso è presente la zona di rappresentanza costituita da diversi ambienti separati da muri divisori, 





mentre sul lato opposto sorgono strutture di servizio, tra cui si distinguono agevolmente il forno e la grande cisterna voltata.




Fabrizio, Giovanna e Nicola S.